venerdì 30 gennaio 2015

TEORIA DEL DEBITO ODIOSO




Salvatore Tamburro: Peccato mi abbiano concesso appena 4 minuti per dire la "verità", ma considerando che stavo di fronte a milioni di telespettatori italiani lobotomizzati da anni e anni di bugie e di cazzate da parte dei mass-media e politici collusi e considerando che ho pronunciato alcune "paroline magiche" che nessuno ha mai osato dire in una diretta televisiva rivolta ad un così vasto pubblico spero che tutto ciò almeno sia servito a risvegliare qualcuno. Se dopo questa breve apparizione non mi vedrete più su alcuno schermo televisivo sappiate che non è stata una mia scelta.



Debito pubblico dove in ogni angolo dei quotidiani ne sentiamo parlare, in ogni ritaglio delle varie trasmissioni giornalistiche televisive, un fardello che ci accompagna in tutta la sua salomonica drammaticità. Poco o niente sappiamo del debito detestabile, uno strumento giuridico utilizzato a livello internazionale per decidere di non pagare il debito pubblico, uno strumento che hanno utilizzato diversi Stati, in epoche nemmeno tanto lontane, in cui l’Italia ne potrebbe trarre beneficio visto che siamo arrivati alla modica cifra dei 2.100 miliardi di € di debito pubblico. 

La data in cui parte l’analisi è il 1981, in cui si verifica la cosiddetta separazione del ministero del Tesoro e la banca d’Italia. Negli anni precedenti la banca d’Italia garantiva sempre l’acquisto dei titoli di Stato, ora il finanziamento della moneta è subordinato all’emissione dei titoli di Stato ed acquistato dalle banche ed in cambio danno moneta. Il problema qual’è, sostanzialmente questi titoli di Stato hanno anche degli interessi che devono essere pagati alla scadenza dei titoli, i quali generano il debito pubblico. 
Ovviamente questo esiste perché i Stati sono stati privati del potere più importante che ha: il potere di emettere moneta, compresa l’Italia che non ha più l’emissione del suo denaro, del suo denaro scritturale che viene emesso dal sistema bancario e quindi di entità privata, e quindi S.p.A. Anche la nostra banca d’Italia che si spaccia per un ente di diritto pubblico, nei fatti è una S.p.A., basta andare a vedere gli azionisti della banca d’Italia sono tutte banche: Unicredit, Intesa San Paolo, MPS, BNL, le quali detengono la maggioranza delle quote della banca d’Italia. L’unica quota in mano pubblica è quella dell’INPS e dell’INAIL che hanno un modesto 5%.

E’ doveroso ricordare che dal 1981 si avvia tutto il processo di privatizzazioni, anche grazie a Draghi, Prodi, Ciampi e via dicendo, che hanno avviato un processo in cui molte imprese che prima erano pubbliche diventando private.

Sempre partendo dal 1981 questa montagna di debito pubblico che l’Italia si ritrova è composto da interessi, interessi che noi paghiamo sul debito pubblico. Dal 2008 al 2011 il debito pubblico è sempre aumentato, addirittura dal 2001 a 2012 si riscontra un aumento di 11 miliardi di €, una cifra enorme, infine dal 2011 il debito è passato da 1900 miliardi a circa 2.100 miliardi dei giorni nostri. Un debito che non riusciremo mai a sanare in quanto il debito è sempre in continuo aumento. Basandosi sui dati ISTAT è possibile fare un calcolo degli interessi pagati sul debito pubblico dal 1980 al 2012. Raffrontando uno Stato a moneta debito, quella emessa dalle banche, e uno Stato ha moneta Sovrana, quella emessa dallo Stato. Se ci si diverte a fare questo calcolo, che tutti possono fare, ci si accorge di una cifra gigantesca che l’Italia ha dato alle banche solo per interessi, una cifra che equivale a circa 1.800 miliardi dal 1980 ad oggi. Se invece lo Stato non avesse dato questi soldi alle banche, ma avrebbe generato una moneta sovrana ad oggi l’Italia sarebbe con un avanzo di circa 250 miliardi a credito, che ovviamente potevano essere utilizzati per produrre altri beni e servizi per i cittadini. In sostanza è un sistema truffaldino di cui i cittadini fanno la parte dell’incudine, costretti a lavorare e pagare tasse per le oligarchie private, banche e corporation. Che cos’è la domanda aggregata, ovvero la ricchezza di un Paese? 
Seguiamo questo video (Morte e risurrezione di Keynes)


Come avete potuto vedere dalla formula della domanda globale:

Dg= C+I+G+Ex

si deduce che lo Stato non è in grado di manovrare tutte e 4 le variabili, ma riesce a manovrare solo 2 ovvero i consumi ( C ) ad esempio riducendo le tasse e la spesa pubblica ( G ) emettendo moneta. Il problema qual’è che andando avanti in un contesto del genere in realtà lo Stato è privato anche di manipolare anche la variabile ( G ), in quanto ci sono le banche che comprano i titoli di Stato, e lo Stato non ha i mezzi sufficienti per costruire strade, ospedali, scuole e servizi sanitari se non attraverso l’acquisto dei titoli di Stato. Tradotto lo Stato è soggiogato dalla oligarchia bancaria, in realtà quello che si limita a fare lo Stato è semplicemente ridurre e aumentare le tasse secondo le necessità o ridurre la spesa pubblica. I cittadini vivono in Italia ed i tutta l’Unione Europea un periodo di politiche monetarie restrittive che sono basate su questi semplici concetti: aumentare le tasse, ridurre la spesa pubblica, che sono totalmente sbagliati per far crescere l’economia e quindi l’occupazione. Lo Stato, invece, dovrebbe fare tutto il contrario, dovrebbe applicare politiche espansive. Lo Stato dovrebbe spendere di più, aiutando le imprese a ricevere finanziamenti più facilmente possibile, perché a sua volta le imprese avendo finanziamenti riusciranno ad assumere nuovi dipendenti, assumendo nuovi dipendenti si avrà nuovo salario atto a generare consumi, quindi il cittadino spende il reddito che ottiene dall’imprese, risultano che l’economia gira. 

Tutto questo non è fattibile in un regime economico presente oggi, si vive in un regime economico in cui lo Stato ha le “mani legate”. Politiche di austerity che l’UE sta obbligando l’Italia a seguire, politiche per aumentare l’età pensionabile, ridurre le infrastrutture dello Stato come la ricerca, sanità, trasporti ecc, cittadini che avranno sempre meno beni e servizi con aumento delle tasse. Ricette economiche che non funzionano, analizzando i dati macroeconomici con i dati ISTAT ci si accorge che la disoccupazione cresce in modo esponenziale. Se andiamo, invece, a ricordare le ricette di Keynes che portò in Europa benefici per quasi 30 anni, finché poi non subentrarono le politiche liberiste favorendo le oligarchie bancarie. Da precisare che finché ci si è basati su un forte interventismo dello Stato l’economia ha girato sempre bene. Il concetto è molto semplice, se una nazione lascia in mano la politica monetaria a delle oligarchie private l’obiettivo principale è quella di fare profitto. E’ ovvio che una società per azioni, per fare profitto, deve minimizzare costi e massimizzare ricavi, quindi raggiungere l’obiettivo dell’utile. Lo Stato non ha questo obiettivo, lo Stato può anche spendere perché il suo obiettivo non è il ricavo è il benessere dei cittadini. Oggi lo Stato non può applicare una politica monetaria espansiva perché il potere di emettere moneta è nelle mani delle banche. Completato il quadro dell’economia ed il rapporto Stato e moneta, parliamo del debito detestabile. Capito che il debito pubblico è stato generato da un sistema truffaldino, un debito generato dalle banche non per gli interessi dei cittadini, ma per l’interesse di istituzioni private; come lo possiamo annullare? Esiste uno strumento che prende nome come debito detestabile, che permette, attraverso dei principi molto semplici, di poter annullare il debito, come alcuni Stati hanno fatto.


E’ ovvio che tale tematica la stampa non ha alcun interesse di sviluppare. La dottrina giuridica è stata promossa da Alexander Nahun Sack, giurista nel periodo della Russia zarista. Portò alla luce tre requisiti fondamentali per poter utilizzare tale principio e cioè:
  1. Il governo deve aver conseguito prestiti senza che i cittadini ne fossero consapevoli e senza il loro consenso
  2. I prestiti devono essere stati utilizzati per attività di cui la cittadinanza non ne ha tratto alcun beneficio
  3. I creditori devono essere al corrente di questa situazione e disinteressarsene 3
Nel tempo Sack perfezionò il processo in cui le parti possono applicare la pratica del debito detestabile. In sostanza afferma che il nuovo governo deve dimostrare l’esistenza del debito odioso con un tribunale o una commissione internazionale, indipendente dai poteri, che deve accertarsi che l’esigenza del precedente governo sosteneva al fine di contrarre il debito in questione erano detestabile e chiaramente in contraddizione con l’interesse del popolo. Il secondo principio era che i creditori al momento di erogare il prestito erano a conoscenza del debito. Il terzo principio nell’applicazione di questa teoria è che al momento della creazione del debito il governo ne ha usufruito per dare beneficio al popolo, non degli interessi privati. 

Basandosi su questi requisiti fondamentali ci sono degli Stati che sono riusciti ad annullare il loro debito, ad esempio gli USA nel 1898 rifiutarono il debito che aveva Cuba quando il paese era ancora sotto la potenza spagnola, quando passò sotto il dominio americano gli USA dissero che quel debito che aveva Cuba era detestabile, perchè era stato generato dagli spagnoli per interessi personali. 

Per venire ai giorni nostri con il debito iracheno nel 2003. Sapete benissimo che gli USA con la guerra in Iraq, con la scusa delle armi di distruzione di massa che non furono mai trovate, hanno invaso l’Iraq compreso il suo debito pubblico, generato dal governo di Saddam Hussein. Anche in quella occasione definirono quel debito impagabile e cioè detestabile attraverso una serie di processi internazionali basato sul debito detestabile hanno dimostrato che il dittatore aveva utilizzato quel debito per scopi personali. 

Ovviamente i mass media non ne parlano affatto di questo principio, altrimenti domani mattina si sveglia uno Stato dicendo di applicare lo stesso principio, una teria che viene tenuta molto nascosta. L’ultimo che ha applicato questo principio del debito odioso è stato lo Stato dell’Ecuador nel 2008: Rafael Correà ha annullato qualcosa come 11 miliardi di $ che il Paese doveva ad istituzioni sovranazionali come l’FMI, sostenendo che quel debito è nato da governi precedenti che non hanno utilizzato quella moneta a beneficio della collettività, ma l’hanno utilizzato a scopo personale. Quindi Correà ha ripudiato questo debito pubblico annullando il debito che l’Ecuador aveva con il FMI. 

Tutto questo per dire che tale strumento è possibile adottarlo anche per l’Italia, mostrando che abbiamo 2.000 miliardi di debito che in realtà non hanno portato benefici ai cittadini, pensiamo che siamo ancora in recessione economica, siamo in una situazione che ci sono suicidi di piccoli imprenditori per insolvenza, siamo in una situazione in cui le imprese chiudono ad un ritmo di 70 al giorno perché non riescono più ad andare avanti ed i prestiti che le banche ci stanno facendo non stanno portando alcun beneficio, contrariamente alle banche portano lauti guadagni. Banche che si arricchiscono a fronte degli interessi che dal 1980 ad oggi sono finiti nelle loro casse. Un sistema truffaldino che può essere annientato solo introducendo la Sovranità monetaria. 

Una Sovranità monetaria che ha lo scopo di creare beni e servizi, che contrariamente a quanto dicono i professoroni che un Paese con Sovranità monetaria possa cadere nell’inflazione. Oggi abbiamo in Italia un 3% di inflazione, però siamo in recessione economica, abbiamo problemi di disoccupazione, 6.2 milioni di persone tra precariato e disoccupati, una cifra spaventosa. Eppure abbiamo il 3% di inflazione, una cifra modesta, mentre è da proporre un inflazione del 30%, ma annullare la disoccupazione che è il problema più grave, tra l’altro ci sono dei dati che dimostrano che l’inflazione non viaggia di pari passo al debito o al PIL, sono comunque dei meccanismi separati. La presidente dell’Argentina Cristina Fernández de Kirchner, per esempio, ha risollevato l’economia del suo paese, che prima godeva di un inflazione molto bassa, ora l’inflazione è altissima però ha risolto il problema della disoccupazione. Come ha ottenuto questo risultato? Cominciando ad investire con la spesa pubblica emettendo più moneta per generare beni e servizi con la conseguenza che imprese e cittadini ne sono stati avvantaggiati. Il meccanismo fondamentale è che senza Sovranità monetaria non si riesce ad andare avanti, è inutile proporre altre teorie se lasciamo il potere di emettere moneta nelle mani di organismi privati che sono le banche. Detto questo possiamo anche annullare il debito, avvalendosi degli strumenti a livello giuridico internazionali, sopra citati. E’ ovvio che a quel punto uno Stato sarà in grado di attuare delle politiche monetarie espansive, non restrittive come i cittadini stanno subendo oggi (piena recessione economica), riattivando i consumi per le imprese che a loro volta hanno la pssibilità di assumere nuovi lavoratori, risolvendo il problema della disoccupazione. 

Una teoria keynesiana soppiantata dalle teorie neo liberiste in cui lo Stato deve essere messo da parte, non deve intervenire nel mercato, in quanto il mercato si regola da solo. I dati dimostrano che non è così, il mercato non si regola da solo se non c’è l’intervento dello Stato, o meglio si regola da solo quando si creano le privatizzazioni in cui il bene pubblico lo vendi ad una multinazionale, come l’acqua, il trasporto, la scuola e la sanità. Che cosa succede? Succede che i cittadini si ritrovano con il prezzo maggiorato dell’acqua, si formano dei monopoli pubblici che si trasformano in monopoli privati. Ecco perchè le banche sono delle istituzioni a delinquere, come il FMI, come il WTO e la BCE, sono tutte istituzioni private che si spacciano per istituzioni pubbliche che gestiscono tutta l’economia mondiale. Solo attraverso un maggiore intervento dello Stato si possono attuare ricette economiche per il bene dei cittadini, compreso il diritto di disobbedire ai creditori (clicca qui).



sabato 3 gennaio 2015

Disuguaglianza sociale








"Abbiamo urgente bisogno di modificare le regole dell'economia per favorire la ripartenza degli investimenti pubblici nelle città, nelle regioni e nelle provincie. Dobbiamo sostenere una spesa pubblica di qualità che serva anche a quelle strutture per la prima infanzia, per gli ospedali, per le opere pubbliche, per l'ambiente, per il trasporto pubblico, per la viabilità, per le case, condizione necessaria anche per una coesione sociale, migliorando la qualità degli investimenti pubblici favorendo la crescita e l'occupazione". 





Mariana Mazzucato (La Repubblica 31/12/2014) 
LA CRISI finanziaria globale che è cominciata nel 2008 e i cui strascichi si fanno ancora sentire pesantemente, è stata provocata da due fattori. Il primo è l’aumento della disuguaglianza, specialmente negli Usa, che ha costretto le persone a indebitarsi fortemente.
IL secondo fattore è stata la presenza di un settore finanziario deregolamentato, che negli ultimi decenni è cresciuto a ritmi ben maggiori della produzione industriale perché la finanza, per speculare, prestava a se stessa invece che all’industria. Le politiche per il dopo-crisi dovrebbero quindi puntare prioritariamente a ridurre la disuguaglianza e indurre la finanza a coltivare e prestare soldi all’economia reale. Eppure oggi stiamo fallendo miserevolmente su entrambi i fronti.
La disuguaglianza è in aumento. E se le cifre scoraggianti relative agli Stati Uniti sono ben note, l’Italia, per molti aspetti, sta andando peggio del resto dell’Ocse su questo versante. I dati Eurostat mostrano che il 10 per cento più ricco della popolazione italiana guadagna tre volte di più del restante 90 per cento, e mentre nel resto dei Paesi dell’Ocse il reddito dell’1 per cento più povero in percentuale del totale è cresciuto (dall’1,8 al 2,6 per cento), in Italia continua a regredire. Inoltre, anche se fa comodo fingere che tutte le imprese se la passino male, la realtà è che la quota dei profitti sul totale del reddito a livello mondiale è a livelli record; e l’Italia da questo punto di vista è ai primi posti in Europa, con il 45 per cento rispetto a una media Ue del 40. E come dimostra Mario Pianta nel suo libro Nove su Dieci, tutto questo mentre i salari medi per lavoratore italiano sono diminuiti di oltre lo 0,1% in media l’anno per due decenni.
Ma per ridurre la disuguaglianza non basta considerare solo l’efficacia della tassazione redistributiva o elargizioni come il bonus degli 80 euro. È essenziale affrontare anche i problemi più intrinseci di governance aziendale che hanno consentito ai profitti di salire a livelli record, distanziando i salari. È proprio questo punto che ci porta al secondo problema. L’idea che la finanza grande e cattiva debba in qualche modo essere addomesticata per poter far pendere nuovamente la bilancia dal lato della buona vecchia industria non tiene conto di quanto sia diventata malata l’economia reale. L’industria stessa si è finanziarizzata, concentrandosi esageratamente sull’accumulo di liquidità (a livelli record) e/o spendendo per misure, come gli stock buy back, che rafforzano sul breve termine il titolo azionario (e di conseguenza le stock option e le retribuzioni dei top manager), invece di puntare su quelle tipologie di spesa che garantiscono una crescita nel lungo periodo, come gli investimenti in ricerca e sviluppo e in formazione del capitale umano.
È urgente quindi che la politica industriale, che finalmente sta tornando in voga, non si limiti a sostenere certi settori, come l’informatica o le bioscienze, ma chieda alle aziende che operano in questi e in altri settori di partecipare alla riforma necessaria. Invece stiamo assistendo all’esatto contrario: governi che si fanno in quattro per accondiscendere senza fiatare alle richieste delle grandi imprese “per favorire la crescita” e un attacco generalizzato contro i diritti dei lavoratori. Un esempio di quest’ultima tendenza è il modo in cui il governo italiano continua a sostenere che l’impedimento alla crescita in Italia risiede nel livello delle retribuzioni dei lavoratori e che la soluzione stia quindi nel fare di tutto per ridurre il costo del lavoro (la recente riforma Renzi). La realtà è che l’aumento del costo unitario del lavoro è il risultato di un calo della produttività dovuto alla diminuzione degli investimenti privati (e pubblici) in tutte le aree suscettibili di incrementare il capitale umano e l’innovazione.
Un esempio della prima tendenza (il governo ostaggio delle richieste delle imprese) è l’introduzione (purtroppo meno dibattuta) della patent box in Italia per opera del governo Renzi (nel 2013 era stata introdotta nel Regno Unito dal cancelliere dello Scacchiere Osborne). Questa politica, che riduce enormemente la tassazione sul reddito derivante da brevetti, ottiene il risultato di accrescere ancora di più i profitti delle imprese, ma fa poco o nulla per incrementare gli investimenti in innovazione del settore privato (lo scopo dichiarato della misura). I brevetti sono già dei monopoli: i governi non devono intervenire sul reddito che generano (protetto per vent’anni!) ma sulla ricerca che a quei brevetti conduce, specialmente in un Paese come l’Italia, che è fra quelli in cui le imprese spendono meno per ricerca e sviluppo. Invece questa misura ottiene come unico effetto di ridurre gli introiti dello Stato, costringendolo a tagliare su altri fronti per rimanere in linea con gli obbiettivi (dannosi) sul deficit.
Un altro esempio è quell’altra parte della riforma del lavoro di Renzi che riduce le tasse per fondi di private equity, crowdfinancing e fondi di venture capital, come se fossero questi i segreti per finanziare l’innovazione. La verità è che quello che serve alle piccole imprese innovative e in forte crescita sono finanziamenti pazienti, a lungo termine, non il modello sempre più speculativo del venture capital, che punta solo sulla “uscita” (in 3 anni) dall’investimento attraverso un buyout o Opa. Inoltre, la visione errata dei fattori che trainano la crescita ha spinto a portare la durata necessaria per ottenere riduzioni delle aliquote sulle plusvalenze per gli investimenti di private equity da dieci a due anni, incoraggiando molti di questi fondi a focalizzarsi sui rendimenti a breve termine. Cosa bisognerebbe fare nel 2015? La riforma del settore finanziario, mirata a ricongiungere finanza ed economia reale, dovrà innanzitutto studiare in modo critico i fatti concreti dell’economia reale, e non i miti. I periodi più lunghi di crescita stabile nella maggior parte delle economie si hanno quando le aziende medie e grandi investono i loro profitti nella ricerca di nuovi prodotti e nuovi modi di produrre. Quello di cui c’è bisogno oggi è una finanza impegnata nel lungo termine che aiuti questo processo, sotto forma di banche pubbliche (come la KfW in Germania) o agenzie pubbliche strategiche (come Darpa in Usa o Sitra in Finlandia), e una politica fiscale che favorisca l’approccio a lungo termine, invece di continui tagli delle tasse a beneficio degli speculatori. Solo in questo modo il settore privato troverà il coraggio ed il supporto per investire in innovazione.
Assieme ad una politica fiscale progressiva e non regressiva, è fondamentale anche costruire istituzioni in grado di continuare a negoziare condizioni migliori per i lavoratori, in un periodo in cui i profitti continuano a crescere in rapporto ai salari. I sindacati non sono il problema, sono la risposta: e ovviamente devono diventare il soggetto che più si batte per una crescita trainata dall’innovazione e investimenti invece che per il mantenimento dello status quo.
Finché non metteremo insieme politiche per l’innovazione, riforma del settore finanziario e rafforzamento delle istituzioni in grado di lottare per conto dei lavoratori (la quota del salario del reddito complessivo), continueremo a essere ossessionati dalla necessità di “correggere il settore finanziario”, lasciando l’economia reale malata come prima: più disuguaglianza, tante imprese piccole e deboli e una manciata di imprese grandi e finanziarizzate, che chiedono sempre di più e danno sempre di meno. La ricetta perfetta per il prossimo casinò finanziario e il prossimo crac.