domenica 9 dicembre 2012

Stato Sociale


Keynes ha spostato l'attenzione dell'economia dalla produzione di beni alla domanda, osservando come in talune circostanze la domanda aggregata è insufficiente a garantire la piena occupazione. Di qui la necessità di un intervento pubblico di sostegno alla domanda, nella consapevolezza che altrimenti il prezzo da pagare è un'eccessiva disoccupazione e che nei periodi di crisi, quando la domanda diminuisce, è assai probabile che le reazioni degli operatori economici al calo della domanda producano le condizioni per ulteriori diminuzioni della domanda aggregata. (Wikipedia)


Dal prof. Christian Marazzi

La grande soluzione è lo stato sociale. Lo stato sociale è la prima esperienza capitalistica di regolazione del circuito economico all’interno dei perimetri economici. Lo stato sociale a partire dalla grande crisi del 1929 è la prima esperienza di creazione di un mercato di sbocco, non prendendo i paesi al di fuori, ma all’interno del perimetro. E’ la creazione di quella famosa domanda aggiuntiva che manca nel circuito economico all’interno del circuito stesso, attraverso la spesa pubblica.

Una spesa pubblica deficitaria, perché non potrebbe essere altrimenti, condizione indispensabile per creare una domanda che non è contemplata del circuito economico stesso, dall’economia privata per intenderci. Il deficit è un veicolo per costruire ponti, strade, ospedali, scuole pubbliche, per aiutare i poveri. Tutti questi interventi da parte dello stato, sono interventi che lo stato può fare soltanto attraverso la spesa, il deficit. Esattamente come i paesi poveri che per poter fungere come mercato di sbocco hanno dovuto indebitarsi. Lo stato deve indebitarsi per creare una domanda in più che manca all’interno del circuito economico. Se si badasse solo sul prelievo fiscale non funzionerebbe uno stato sociale, perché un prelievo fiscale sarebbe un prelievo su una domanda che già di per se è insufficiente.

Quindi si prende da una parte per spostare dall’altra, però al netto di questo spostamento la domanda è sempre inferiore all’offerta. Per essere più precisi, se la domanda è costituita da 100 e l’offerta da 150, se si tassasse alcuni contribuenti, compresi i ricchi, che fanno parte dei 100, e li sposto ai poveri, alla fine è sempre 100, dunque inferiore ai 150. Quindi questa operazione di intervento attivo dello stato nella regolazione del circuito economico può avvenire soltanto attraverso il deficit.

Lo stato sociale quindi non può soltanto basarsi sulle entrate annuali (tasse e quant’altro) per poter creare quella domanda aggiuntiva che è necessaria per la realizzazione della vendita di questo valore aggiunto che viene, anno dopo anno, creato all’interno del circuito economico nazionale. Allora viene necessariamente posta una domanda “L’economia reale come è che può permettere allo stato di annullare, o ridurre questo deficit che ha contratto?” Qui entra in scena l’aspetto dinamico della tematica. Mettiamo che lo stato si indebita per 100 creando dei redditi, una domanda aggiuntiva, una domanda addizionale pari a 100, per esempio assumendo personale per ripulire delle strade, oppure fa un ordinazione per beni ospedalieri per costruire 10 ospedali, quindi un iniezione di domanda di redditi per aumentare la domanda stessa per accrescere il PIL. Lo stato iniettando questi 100 valori, per creare domanda aggiuntiva, significa che il capitale, gli imprenditori, potranno vendere una buona parte del loro sur plus. Il processo permette di realizzare i profitti e reinvestiti in parte, per ampliare la produzione e quindi creare occupazione di lavoro. La creazione di nuova occupazione complessivamente, evidenzia, che la base imponibile aumenta. Dunque per essere più chiari, ripartendo da 100 che permettono di realizzare profitti, che a sua volta permettono di realizzare degli investimenti creando, ampliando occupazione e produzione che amplifica la base imponibile. Quindi il prelievo fiscale più estesa, permetterà allo stato di ridurre il debito pubblico, per lo meno da renderlo gestibile. La funzione dello stato sociale quindi, è quello di alimentare un circolo virtuoso espansivo di occupazione e redditi.




Come è potuto accadere, quello che è accaduto. Noi abbiamo un periodo ormai di 25 anni, nel corso del quale si sono susseguite tutte una serie di contro riforme, perché l’unica riforma delle pensioni è quella del ‘69, tutte le altre sono state chiamate riforme, ma sono in realtà tentativi di riportare indietro la società. 

Non appena si dice sviluppiamo il sistema sulla base contributiva, si dice riportiamola a quella che era prima dello stato sociale Keynesiano, arrangiamoci, tornando a quello che era il sistema della prima metà del secolo scorso. Tu ricevi i soldi che hai messo da parte, niente di più. Questa si chiama contro riforma, non è una riforma, è un regresso sociale a condizioni pre esistenti. 

Come è potuto accadere, che la società fosse trascinata indietro. Ci sono state grandi manifestazioni, per esempio quando Berlusconi lanciò la sua proposta di riforma pensionistica, si scese in piazza, centinaia e centinaia di migliaia di persone che dimostrarono con forza la loro indignazione. Però, subito dopo Lamberto Dini, fece una riforma che al 95% era esattamente uguale a quella che aveva proposto Berlusconi e contro la quale la gente era scesa in piazza. Come è stato possibile, che fine ha fatto quella forza che abbiamo cercato di manifestare in quelle occasioni: La forza si è dissolta come neve al sole, non è intervenuta una forza reale nella società. E’ questo il problema che abbiamo, non dobbiamo cercare di fare appelli volontaristici, dobbiamo capire dove si annida la nostra debolezza sostanziale. Cerchiamo di superare, questa debolezza, con atti di volontà e di manifestazioni, ma che non si consolida in un sapere sociale. Questo è il vero problema, se il popolo è stato sconfitto, ripetutamente, è perché in qualche modo sotto sotto condividiamo una parte dell’esperienze dei nostri aguzzini. E’ lì che c’è la trappola. Quando loro parlano e dicono “Non c’è alternativa bisogna fare così”. Lo facciamo però un pò alla volta, la riforma Dini, oppure diamo un accettata come ha fatto la Fornero adesso, è perché ci dicono “Siamo costretti”.
C’è addirittura l’apologia del fatto che non ci sarebbero alternative. Il problema è che l’alternative ci sono, ma bisogna saperle individuare e costruire. 

Nel libro di Piero Angela Perché dobbiamo fare più figli, la problematica è molto chiara: ieri le pensioni potevano essere pagate con tranquillità, perché c’erano pochi anziani e una grande quantità di giovani al lavoro. In futuro ci saranno molti vecchi e poca gente al lavoro, perché ne nasce poca. 

Non c’è altra alternativa di ridurre le pensioni. Se si pensa che l’obbiettivo da qui al 2050, obiettivo di scemi, di idioti, di ignoranti, è quello di fissare la spesa pensionistica al livello del PIL attuale, non deve superare il 15%. Però tutti dicono che da qui al 2050 le persone anziane raddoppiano. Qualcosa non quadra, le persone anziane raddoppiano dandogli la stessa quantità di reddito che percepiscono oggi. Si sta dimezzando la loro ricchezza, li stai impoverendo drasticamente. Risposta “Non ci sono i soldi, come si fa? Non ci sono figli che possono sostenererli, la legge democrafica ci impedisce di mantenere meglio gli anziani”.


Siamo ritornati per caso nel 1600? Quando si credeva che la potenza di una nazione era nel numero di braccia disponibili. Ma noi, tutti i giorni ci spostiamo a piedi per andare al lavoro, o in vacanza e raggiungere qualsiasi parte del mondo, o abbiamo usato degli strumenti, o abbiamo usato la tecnica? Quello che manca nel libro di Piero Angela è il fatto che i giovani che stanno sostenendo gli anziani, oggi non usano più la zappa, non usano più il bue per arare, non usano più la cucchiara per mescolare il cemento. Oggi i palazzi si costruiscono con camion che arrivano con quintali di cemento e tirano su muri.
Tutto ciò significa che gli economisti nel 1600, avevano già capito che introducendo un congegno tecnico che permette di produrre molto più di prima, sostituisco lavoratori non avendo più bisogno di avere braccia, molto più efficace delle braccia: la forza produttiva degli strumenti tecnici che sostituiscono il lavoro. Se il discorso di Piero Angela fosse anche lontanamente vero, allora perché su quattro giovanotti messi sotto, due stanno buttati da una parte e non riescono a produrre, perché sono disoccupati? 

Sono disoccupati perché per il loro lavoro non si trova un uso. Questo è il punto fondamentale, l’innovazione tecnologica, modifica la realtà sociale e nessuno può raccontarci delle favolette pretendendo di fare scienza. E’ in realtà la diffusione dell’ignoranza governativa planetaria.

Attenzione, tutto questo discorso non serve a niente, perché lo stato delle cose ancora da ragione alle ideologie del 1600 diventando luogo comune, per cui la maggior parte delle persone è convinta che facendo meno figli bisogna ridurre i trattamenti pensionistici futuri.

E’ una stupidaggine, ma oramai la tendenza si è consolidata. Perché non si va a vedere il funzionamento della società nella sua concretezza. 

Qual’è stata la base del sistema pensionistico introdotto nel 1969. Non è che un trattamento generoso sia stato introdotto come dicono la maggior parte dei denigratori del vecchio sistema, per opportunismo politico. Siccome i politici volevano arruffianarsi gli elettori, hanno elargito a piene mani, una ricchezza che non avrebbero potuto elargire. Gli anziani hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità reali. Perché, per esempio, era assurdo secondo loro, introdurre un sistema retributivo. Che cosa è questa storia che quando tu vai in pensione, prendi l’80/90% dell’ultimo stipendio. Quanti soldi hai messo da parte? Quelli ti restituisco, chi se ne frega se è il 50% dell’ultimo stipendio, quelli sono soldi tuoi e arrivederci, quello ti spetta. 

Quando fu introdotto il sistema del ‘69, si riconobbe che questo ragionamento non aveva un fondamento economico reale, in quanto ormai si era sviluppata la capacità tecnologica in maniera straordinaria, e quindi la produttività richiedeva che la società assorbisse ciò che riusciva a produrre con le nuove tecniche.

Per questo si è deciso che le pensioni potessero essere ancorate alle ultime retribuzioni, senza causare alcun danno, anzi sostenendo l’attività economica. Perché quello che succede con lo sviluppo della tecnica, è che ad un certo punto la società è in grado di produrre sempre di più. Dobbiamo capire che il mondo cambia radicalmente con l’avvento dello stato sociale, perché la capacità produttiva dei paesi industrialmente avanzati esplode, cambiando radicalmente la condizione umana. I frutti propri della società capitalistica giungono a maturazione. Nel periodo precedente, la cosa che non si riusciva ad accettare era che il problema, che determinava la crisi, stava dal lato della domanda, non dal lato dell’offerta. In tutta la crisi degli anni ‘30 si diceva, come si sta dicendo in questo periodo, incredibilmente, bisogna lavorare di più, dobbiamo tagliare i sussidi di disoccupazione, le paghe dei dipendenti pubblici. A quel tempo Keynes disse “No, il problema non è dal lato dell’offerta, il sistema è in grado di produrre molto di più di quello che produce, non lo fa perché non c’è chi spende, non c’è la domanda.”



Questo è stata la grande rivoluzione che ha consentito, dopo la seconda guerra mondiale, un radicale cambiamento della società. Le pensioni, dello stato sociale Keynesiano, poggiano su questa consapevolezza. Diamo alle persone anziane un reddito corrispondente e alle possibilità del sistema economico. La domanda si manifesterà e il sistema sarà in grado di produrre il suo pieno potenziale, questa è la cosa più importante da capire. 



L’Europa dopo il 1945, gode di 30 anni, di pieno impiego, significa che la disoccupazione media nel vecchio continente, in quei 30 anni è inferiore al 3%. In alcuni periodi addirittura, le aziende chiedono 900.000 lavoratori, essendoci 100.000 disoccupati. Le aziende vogliono lavoratori e non li trovano, questa è la situazione che si instaura nel momento in cui la spesa pubblica cresce, garantendo uno sbocco alla capacità produttiva esistente. 



Che succede ad un certo punto dopo l’esplosione della capacità produttiva, succede che, Keynes ne aveva ampiamente previsto, le condizioni economiche non saranno più miserevoli come prima, creare lavoro non sarà più tanto facile, il problema della disoccupazione tornerà a presentarsi e bisognerà affrontarlo in un altro modo, non con un ulteriore spesa pubblica per creare lavoro. Questa condizione succede negli anni ‘80 e i conservatori cominciano a prevalere culturalmente. La prima cosa che fanno è quella di dire “La Banca d’Italia non sottoscriva più il debito pubblico italiano. Lo stato vuole spendere? Si aumentino le tasse.”



Le tasse, in Italia, negli anni ‘70 stavano al 25% del reddito, oggi siamo arrivati al 50%, sono raddoppiate, in quanto i conservatori hanno cominciato a dire “Se uno vuole qualcosa la deve pagare. Vogliamo che lo stato soddisfi i bisogni? Vanno pagati con le tasse”.



Questo è proprio quello che Keynes diceva che non doveva succedere, perché questo avrebbe lentamente fatto regredire la società, impoverendola, bloccando il processo di sviluppo. Non è un caso che lentamente siamo precipitati di nuovo in una situazione di ristagno strutturale. Allo stesso modo come quello degli anni ‘20 e ‘30 in Inghilterra e America, in quanto hanno preso il sopravvento le stesse menti che all’epoca combattevano contro lo stato sociale, facendo ristagnare l’economia europea per un ventennio. 



Da questo punto di vista, il problema delle pensioni va collocato all’interno di questa problematica, un aspetto essenziale che in qualche modo abbiamo conquistato con lo stato sociale, distrutto dalle contro riforme dei conservatori. Dobbiamo recuperare questa risorsa, dobbiamo cominciare a manifestare il pensiero progressista e propinarlo nella società.

Dobbiamo recuperare la forza lavoro come istituzione essenziale di una comunità nazionale, oggi la disoccupazione giovanmile sfiora il 36%, per quello che ci fanno sapere. I dati ufficiali, però, sono dati imbroglioni, in quanto nelle casistiche viene conteggiato anche il lavoratore che ha lavorato un ora nell’ultima settimana, viene considerato occupato. Venti anni fa all’ufficio collocamento si diceva “Lei è occupato?” “No” la registrazione consolidava la disoccupazione. Adesso fanno numerose controprove “Che cosa hai fatto nelle ultime 2 settimane di attivo nella ricerca di una occupazione?” La maggior parte dei giovani risponde “Niente, nel paese non ci sta niente che cosa faccio?” Dice l’intervistatore “ No, tu comunque dovevi scrivere a delle aziende in altri luoghi per cercare lavoro, se non cerchi lavoro in realtà non lo vuoi”
Con questo piccolo marchingegno fanno sparire, nella casistica, un numero imprecisato di giovani disoccupati. Il problema può essere risolto solo in un modo, la redistribuzione del lavoro a tutti, facendo in modo che tutti abbaino una occupazione, se non si riesce a riempire le ore della giornata si riduca il tempo di lavoro individuale, quanto è possibile.

I conservatori, distruttori della società, vincono perché anche noi, senza renderci conto, ragioniamo come loro. Nella protesta dei malati di SLA, contro il ministro Fornero, la quale ha risposto “Si, va bene, però 150. Gli altri si attacano” “Perché?” “Perché mancano le risorse”

Questa è stata l’argomentazione del ministro del lavoro. Dove sta scritto che mancano le risorse? Mancano gli infermieri? No! Mancano gli edifici per poter assistere le persone con gravi patologie? No! Mancano gli strumenti per trasportarli? No! Allora è colpa tua, quali sono le risorse mancanti, sei tu che sei una cocuzza. Sei tu che non riesci ad elaborare una mediazione sociale diversa dal denaro. La Fornero dovrebbe guardare le risorse, che non sono solo i soldi, raccogliendo le risorse produttive esistenti. O la Fornero pensa di lasciarle inutilizzate?

domenica 21 ottobre 2012

Usa e getta



E’ chiaro che il nostro paese è particolarmente a rischio sul consumo del suolo, specialmente sul consumo del suolo agricolo che viene cementificato. Si pensi che ogni giorno si parla di un consumo pari a 100.000 ettari di terreno agricolo. Una cifra molto grande, ma potrebbe esserci un inversione di tendenza, perché c’è un provvedimento legislativo, un disegno di legge che però ha bisogno di un lungo iter parlamentare per essere approvato, che mira proprio a contrastare questo depauperamento del territorio italiano con questa continua cementificazione. Non esiste soltanto il problema di costruzione di case per abitazione, ma anche la costruzione di capannoni industriali, non c’è comune, non c’è frazione comunale nel nostro paese che non voglia avere la sua zona per edificare. 

Per esempio nelle aeree industriali del Veneto, il 30% dei capannoni è dismesso o invenduto, forse lo resterà per sempre. Tuttavia si continua a costruire su terreno vergine, si progettano grandi opere e nuovi centri commerciali in zone agricole pregiate o addirittura in aree protette. Fortunatamente ci sono comuni sensibili a questo problema distruttivo per la natura, come a Mira in provincia di Venezia, il nuovo sindaco sta cercando di fermare il polo logistico di Togaletto, un immenso parco di container ai bordi della laguna a poca distanza dai moli e dai binari dismessi di porto Marghera.

Dalle notizie che arrivano da Legambiente, il Veneto ha un altissimo tasso di infiltrazione mafiose, ritengono che questa grande cementificazione nasconde attività della malavita organizzata di riciclare denaro sporco. Il record del consumo di suolo spetta alla Lombardia, che ha perso per sempre ¼ dei suoi terreni agricoli. Ogni giorno su questa regione spariscono 15 ettari di suolo, soprattutto si costruiscono opere che spesso non sono giustificate. Sempre secondo Legambiente in Lombardia c’è un progetto per costruire 400 km di nuova rete stradale. Il guaio è che costruire su terreno vergine offre grandi vantaggi economici, rispetto alle ristrutturazioni ed alle bonifiche. In altri paesi europei si usa il criterio che se un costruttore consuma terreni agricoli o suoli naturali ha dei costi molto elevati, in termini di tasse aggiuntive che vengono poi usate per finalità di carattere ambientale. Mentre bisognerebbe recuperare dei suoli dismessi, sotto utilizzati o abbandonati all’interno della città. Certo, quando sentiamo parlare di tasse aggiuntive si potrebbe fare una cosa simile nel nostro paese? 

Più che altro si dovrebbe tener conto, quando si parla di costi economici, di tutto il ciclo. Immaginare che un terreno agricolo possa dar luogo ad un vantaggio economico se viene preso, maciullato e trasformato in cemento e asfalto, che questo convenga di più della trasformazione di un territorio degradato e abbandonato e che questa operazione sia possibile è un’assurdità. L’assurdità si regge sul fatto che i costi, non solo di degrado ambientale, ma di tenuta del terreno e quindi aumento delle frane, di alluvioni e di pericoli di dissesto idrogeologico da una parte, dall’altra la diminuzione dell’appeal del sistema paese Italia. Questi due elementi che sono robustamente economici, non vengono calcolati, considerando il suolo usa e getta. Se si calcolasse questi due elementi si potrebbero mettere le risorse dello stato in questo settore del recupero del territorio. Non ci vorrebbero tanti soldi, se pensiamo che in 10 anni per incentivare il fotovoltaico lo stato ha elergito 10 miliardi di € di finanziamenti. 

Con 10 miliardi si potrebbero recuperare moltissimi quartieri degradati in moltissime città e paesi italiani. Ci vogliono risorse pubbliche, su questo non ci sono dubbi, tener bello il paese non è un fatto privato e di interesse individuale. E’ anche vero però, che se da un lato l’ambiente Italia costa, dall’altra si risparmia, perché oggi se pensiamo che c’è solo un costo, è difficile ottenere un risultato, ma se pensiamo che si risparmia centinaia di miliardi di € di danni idrogeologici che sono nel bilancio dello stato, forse c’è anche una convenienza. 

Una scelta del governo e del parlamento, perché il senso del bene comune in questo paese è scarsissimo e molto basso. 


Marcel Proust ......"un paese barbaro non è quello che non ha mai conosciuto le bellezze dell'Arte ma è quello che, disseminato di arte, non le tutela." 



Negli ultimi 40 anni la cementificazione si è mangiata più di ¼ del nostro terreno agricolo. Per capire meglio, è come se avessimo cementificato tutta la Lombardia, la Liguria e l’Emilia Romagna messe insieme. Oltre alla tutela del paesaggio, il problema della cementificazione riguarda anche la nostra sopravvivenza. Ad oggi importiamo, dati del ministero dell’agricoltura, il 20% del cibo necessario al nostro fabbisogno, come cereali, carne, latte e perfino olio di oliva. Se il disegno di legge del governo nominato salva campi (corriere della sera) salva campi (corriere del mezzogiorno) fosse approvato, per la prima volta nella nostra storia ogni 10 anni verrà determinata l’estensione massima di superficie agricola edificabile, privileggiando la ristrutturazione degli edifici già esistenti. Negli ultimi anni i comuni hanno rilasciato licenze edilizie pari al 3,8 miliardi di metri cubi, di cui l’80% per nuovi edifici, il tutto per fare cassa, in quanto gli oneri di urbanizzazione venivano utilizzati per le spese correnti Non sarebbe più possibile questa pratica se il disegno venisse approvato. Sarà, inoltre, vietato il cambiamento di destinazione d’uso per almeno 5 anni, nei terreni che hanno ottenuto contributo pubblici. 

Perdiamo ogni anno più di 100.000 ettari di superficie agricole, 70.000 ettari vengono ricolonizzate dal bosco, mentre per 8.000 ettari vengono invece convertite in aree urbane, causando una perdita della produzione agricola sostanziale. 

Se le forze politiche ed il nostro governo capisse questi dati e che tutte le nostre città si trovano in deficit per motivi urbanistici di abusivismo, che poi la collettività si carica dell’onere di portare i nostri servizi dal trasporto, alla luce, all’acqua ed al gas in aree lontanissime. In un momento di crisi, credo che questo provvedimento del governo non dovrebbe essere un disegno di legge, ma un decreto legge. Il disegno di legge corre un grossissimo rischio che non venga approvato per motivi di tempo, in quanto siamo quasi alla fine della legislatura. C’è bisogno di ragionare in altri termini, bisogna ricollocare l’economia, oggi spendiamo in sussidi ai fossili 5 volte di più di quello che diamo per l’energia rinnovabili. Se i soldi che buttiamo per sostenere un economia cattiva li riconvertissimo, anche solo in parte, per sostenere l’economia buona. Si pensi alla Sardegna che stanno riconvertendo un polo industriale dell’ENI che la Novamont S.p.A.sta facendo per creare un grande polo di chimica verde, di cui esiste già un altro in Umbria. 

Un progetto di chimica verde che sta camminando con le sue gambe, dando occupazione e profitti, non possiamo soltanto sostenere cose che alla lunga perdono a danno della collettività. Basta con questa sciagurata legge che fa utilizzare gli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente, proprio in un momento di crisi dei comuni, che è stata la molla che ha scatenato la cementificazione dell’Italia nata nel 1998, abrogano questa legge. I comuni sono preoccupati giustamente, perché deve finire questo gioco di valorizzare i terreni agricoli per fare cassa ed indebitarsi di portare i servizi, basta con questo massacro del territorio, abbiamo costruito fin troppo rispetto alla nostra popolazione, quindi dovremmo solo ristrutturare, proteggendo anche le nostre case con una sano progetto per difenderle dai terremoti.

Di Serenella Fabiani
Sarei felice di non vedere più quello scempio che i nostri occhi sono costretti a subire ogni qual volta passiamo sulla strada che dalla Piccola Svizzera ci porta a Verrecchie: un ECO MOSTRO in cemento armato che é l'emblema della Stupidità dell'uomo che non curante degli altri violenta, deturpa l'ambiente, quella Natura che appartiene a tutti noi . Non permettiamo più che ciò che è accaduto si ripeta.
Mi rivolgo soprattutto ai ragazzi che iniziano ora a capire quanti adulti hanno dato il PEGGIO del loro comportamento a grande discapito della nostra collettività , in questi anni abbiamo troppo spesso assistito a tanti Disastri.
Sono sicura che tutto ciò cambierà con le nuove generazioni che credono ad un mondo migliore solo perchè lo VOGLIONO.


Ci rivolgiamo ai nostri connazionali all'estero perchè la nostra bell' Italia sta "soffrendo" del male dell'indifferenza di molti, ma soprattutto delle istituzioni. Oggi ci troviamo con un paesaggio nazionale gravemente e, forse in alcune zone irrimediabilmente distrutto:Abbiamo un patrimonio storico, artistico,monumentale molto spesso in grave abbandono.Dobbiamo mobilitarci tutti insieme e tirare fuori il nostro amore ed il nostro orgoglio di essere Italiani,un sentimento che è ancora vivo in molti di noi ;; battiamoci con tutte le forze creando movimenti di sensibilizzazione per la Tutela di questo grande Patrimonio che appartiene a tutta l'umanità. Ci siamo affidati al FAI (Fondo Ambiente Italiano) che ci sta dando una mano poiché abbiamo segnalato uno scempio in cemento armato tra i monti della Marsica in Abruzzo.Questa struttura indecorosa è stata costruita tantissimi anni or sono e fortunatamente requisita dallo stato per attività illecite del costruttore. Chiediamo che venga demolita per ridonare al Paesaggio quel decoro che , amministratori senza scrupoli e palazzinari avidi solo di danaro hanno saccheggiato e avvilito. Chiediamo anche a voi di segnalare il Luogo del Cuore : Piccola Svizzera - zona Valle Fucero -Tagliacozzo
provincia dell'Aquila. Ringraziandovi per la vostra attenzione tanti cari saluti dall'ITALIA

Diamo un aiuto agli amici abruzzesi, collegandovi con il link. Non costa nulla solo la registrazione al FAI (Fondo Ambiente Italia) Grazie a Tutti.
http://www.iluoghidelcuore.it/abbattiamo-eco-mostro-in-cemento-armato-in-localita-valle-fucero-piccola-svizzera-tra-i-boschi-della-marsica-salviamo-l-ambiente



 

martedì 16 ottobre 2012

Disastro


“Sull’evasione fiscale, l’Italia è in stato di guerra” (Tempi)

“La concertazione (con i sindacati) è come un dentifricio. Se non si mette il coperchio, scorre tutto”

“Con Berlusconi oggi lo spread sarebbe a 1200”

“E’ necessario che i governi educhino e siano autonomi dal Parlamento”

“Il campionato di calcio dovrebbe essere sospeso per due o tre anni”

“I giovani devono abituarsi a cambiare lavoro. Fare sempre lo stesso lavoro è noioso”

1) La crisi la pagheranno soprattutto i cittadini più deboli perché hanno poco ma sono in tanti. 

2) Il posto fisso è monotono, i giovani devono abituarsi alle sfide. 

3) Lo stato non ha la disponibilità economica per sostenere tutti gli invalidi, loro devono collaborare come gli altri cittadini. 

4) Non c’è crisi fin quando i negozi sono aperti. 

5) In Italia non stiamo cosi male, in Grecia ci sono stati 1725 suicidi, in Italia soltanto 364 suicidi.

Ci sono stati a Madrid, come ad Atene, come in Serbia che hanno scatenato delle reazioni che noi abbiamo già inghiottito. Pensiamo all’IVA, sui consumi lì hanno protestato e in Italia non è successo nulla. Non parliamo più dell’IMU, una tassa sulla casa che oramai sta lì e nessuno dice che si toglierà, un popolo di una pazienza enorme. E’ evidente che nel nostro paese esiste un organizzazione sociale che ancora tiene.Tuttavia c’è un altra verità da raccontare, se si assiste alle sedute della camera e del senato tramite i loro siti, si vede una distanza enorme, non si rendono conto di quello che c’è intorno. Poi arriva il professorone e dice: “per il bene dell’Italia bisogna approvare la spendig review”. Un massacro sociale e non succede nulla, la politica ha smesso, tramite i suoi rappresentanti, di interessarsi della cosa pubblica, dei problemi dei cittadini. Un paese che si avvita su una discussione infinita sulla legge elettorale, perché hanno il problema come rientrano in parlamento e come tenere fuori quelli che non ci stanno, dimenticando i problemi sociali.


 

Questa è la realtà del paese Italia. Sono indignato, perché i problemi sociali di un paese, un parlamentare li deve vivere ogni giorno, ogni giorno deve ricevere persone che lo hanno votato. Invece abbiamo un governo che non lo ha votato nessuno, un governo che ha commissariato la democrazia di questo paese, un governo che non è interlecutore di nessun cittadino, questa è la drammatica realtà. E le organizzazioni sindacali? Non hanno fatto un minuto di sciopero a fronte di quello che ogni singolo cittadino sta subendo da questo governo. E’ bene ricordare che nel 2006, solo per aver accennato ad una discussione di un nuovo statuto dei lavoratori, proposto dal governo Berlusconi, i sindacati portarono in piazza 2 milioni di persone, oggi? A novembre dell’anno scorso con lo spread sopra i 500 punti, la colpa era del governo, adesso è colpa di chi critica il governo. Il governo ed alle forze politiche che lo appoggiano, sono sicuri che questa avventura che ci lega all’Europa deve durare per l’eternità? Perché prima del 2000, che guadagnava 2.000.000 di £, stava bene, oggi con 1.000 € fa la fame. L’Italia ha bisogno di ritornare a stampare la nostra moneta, l’Italia ha bisogno di rimettere soldi nelle tasche della gente, questo fino a che l’Europa non diventi uno stato, la moneta rimarrà solo un affare delle banche. La moneta deve essere espressione dello stato, non lo stato espressione della moneta, altrimenti cambia la classifica le banche diventano padrone della nostra vita, dicendoci, come hanno fatto con i greci, con gli spagnoli, rientrate dal debito. Perché dovremmo fare questa operazione, mettendo a repentaglio la nostra vita sociale, chi sono loro per decidere il futuro del popolo italiano, greco e spagnolo. Questa demogogia perpetua che si sente ogni giorno, perfino dal nostro presidente della repubblica, che l’Europa ce lo dice. L’Europa siamo noi cittadini, ed ogni cittadino ha il diritto di manifestare la sua indignazione, e loro se ne devono andare, perché questa Europa che non va avanti da nessuna parte, deve tener presente che ogni popolo ha il diritto di partecipare alla costruzione di un nuovo stato come protagonista e non subendo le ingerenze di qualche tecnocrate di turno. Ma questo governo tecnico è stato nominato, chissà da chi, nominato per eliminare lo spreco. Spreco?, e che vuol dire spreco, se una siringa nella regione Lazio costa due euro e nella regione Lombardia un euro, è evidente che ci sia uno spreco, ma non è che questa storia della siringa c’e la prendiamo con l’infermiere che fa la puntura. Questo è il tema, quando si dice che debbo licenziare il 10% dei dipendenti pubblici, stiamo parlando di 400.000 persone. Questo vuol dire mandare sul lastrico centinaia di famiglie. Si deve cambiare registro, la sovranità, la moneta, la democrazia, la politica sociale chi decide su queste questioni, fin ora hanno deciso le banche e questo mostro chiamato Europa, questo mostro chiamato BCE (banca ad esclusivo interesse dei privati). Quando si dice che alcune politiche, alcune misure del governo stanno affossando il paese, producendo disoccupazione con la conseguenza dell’abbassamento del PIL, è inutile che raccontano che bisogna lavorare di più. Sarà molto difficile fare una redistribuzione con questo sistema liberista, con il quale lo Stato deve mettersi in mano ai mercati. Abbiamo questo problema strutturale dal 1981, grazie al divorzio tra Ministero del tesoro e banca d'Italia. Una ideologia liberista che ha FALLITO. 

Monti si compiace di non avere nessuna opposizione 
(di Cludio Messora) 

Parlando in un nuovo stabilmento della Barilla, oggi Monti si è compiaciuto della grande prova di coesione che l'Italia, unica nel panorama degli stati in crisi del sud Europa, sta dando.

In particolare, si è compiaciuto di come tre grandi forze politiche, in passato dedite alla distruzione reciproca, oggi si dimostrino invece collaborative. Fino al punto da essere totalmente allineate, schiacciate sulla linea del Governo, aggiungo io. E' un punto di vista. Tuttavia, chi ha responsabilità di governo non dovrebbe ignorare che l'opposizione è un elemento costitutivo della democrazia. In assenza della quale, la democrazia stessa decade e si passa a regimi di natura differente. Oggi i partiti sono sostanzialmente aboliti, non essendovi differenza alcuna tra loro, né tra loro e l'indirizzo del Governo. L'ultima volta che furono aboliti, eravamo alla fine degli anni '20, e il presidente del Consiglio era un tipo piuttosto autoritario.


Monti incrocia poi le dita, constatando come, a differenza di Grecia, Spagna e Francia, gli italiani stiano dando prova di responsabilità. Fuori di metafora: si compiace dell'assenza di qualsiasi forma significativa di protesta di piazza. E aggiunge che l'Europa guarda con soddisfazione alla nostra prova di maturità. Forse anche con qualche respiro di sollievo, aggiungo sempre io.


Un paese ormai pacificato, dunque. Sia dal punto di vista politico che sociale. Suggerisco di rottamare il Parlamento e di eleggere due nuove camere di rappresentanza: una con sede alla Bocconi, una in piazza Affari. I nuovi "lords" saranno le società quotate in borsa, e le elezioni si terranno sui mercati, con semplici operazioni di compravendita titoli. Un meccanismo di vera rappresentanza diretta, senza intermediazioni.


Non sarebbe tutto più chiaro? Monti ci pensi. Basta tirare qualche riga aggiuntiva sulla Costituzione.




mercoledì 10 ottobre 2012

06/04/2009 3:32 - L'Aquila -





Se oggi riconosciamo, affermiamo che non abbiamo mezzi per predire un evento catastrofico, alla stessa maniera dobbiamo dire che non abbiamo mezzi per dire che l’evento non avverrà. C’è da sorprendesi alle affermazioni rassicuranti che tutti i media hanno dato agli abitanti dell’Aquila, a distanza di 3 anni, che invece sono state offerte alla popolazione. Il primo confronto che mi salta alla mente è la professione dell’oncologo. L’oncologo ogni volta che deve parlare con il paziente e con il parente, deve dire loro che il rischio di mortalità per l’intervento di un carcinoma, è presente e quantificato. Non è creare allarme, ma fare consenso informato, come la legge obbliga l’oncologo di rispettare. Io credo che se qualcuno avrebbe detto agli aquilani, non vi allarmate perché non c’è un allarme immediato che si possa quantificare, però sarebbe bene che prendiate alcuni semplici accorgimenti: una semplice torcia elettrica vicino al comodino, in caso di mancanza di corrente; mettere una coperta in macchina; tenere la macchina fuori dal garage; chiudere la porta di casa mantenendo la chiave sulla serratura in modo da agevolare l’apertura della porta stessa; tenere il cellulare sempre vicino a voi. Cose semplici, banali ma quante storie si sono sentite di persone che non si sono salvate per un questi semplici raccomandazioni. Invece hanno considerato la gente come bambini indifesi e tutelati, non sapendo che la popolazione apprezza di più un rischio informato, piuttosto di non essere stata informata sufficientemente per prepararsi al peggio. Sono trascorsi solo tre anni e c’è una sorta di silenzio assordante. Silenzio di rassegnazione e di impotenza, un silenzio che nasconde una indignazione inespressa, un dolore che non trova più voce, un dramma ancora aperto, per chiunque veda la città dell’Aquila chiusa, sequestrata, con l’erba che cresce sulle macerie. 
Oggi si parla di moralità, di disonestà, di ruberie dei nostri amministratori, ed è per questo che ci sentiamo il diritto di allarmarci che cosa potrà succedere alla città dell’Aquila, pensando che territorio fertile può essere per accaparramenti di ogni tipo. Una mortificazione per ogni cittadino italiano, pensare che cosa potrà essere L’Aquila in questi 20/30 anni per la ricostruzione, si è in preda a forti brividi. I cittadini aquilani non meritano questo trattamento, come i cittadini dell’emilia, che fino a questo momento nutrivano delle speranze. Una città ferma con qualche piccola ricostruzione, con qualche piccolo movimento e tanti scarica barile di responsabilità fra enti, governatori e i cittadini si sentono sballottati dalla loro fiducia, dalla loro aspettativa e che giorno dopo giorno si sgretolano come quella notte buia e tempestosa. Dobbiamo sviluppare un enorme quantitativo di anticorpi che sconfigga questa immoralità dilagante, questo appiattimento del senso comune, condannando e non trovando sempre una giustificazione. 

Anticorpi che stanno sviluppando i cittadini dell’Aquila anno dopo anno., anche attraverso testimonianze che riportano indietro a quella tremenda notte, le paure, le ansie, le emozioni, le attese, la collera e la speranza.



      Narrazione collettiva di Patrizia Tocci 
(libro in uscita nella metà di novembre 2012) 
SABATO,06 OTTOBRE 2012-IL CENTRO- L'Aquila
Voci, dolore ed emozioni Le prime ore dopo il sisma
La scrittrice Patrizia Tocci ha raccolto in un libro oltre 50 testimonianze Il volume è stato presentato nell’ambito della manifestazione «Volta la carta di Fabio Iuliano L’AQUILA Voci ed emozioni delle prime 12 ore del 6 aprile 2009: dalle 3.32 alle 15.32 nel tentativo di costruire una narrazione collettiva di una delle pagine più difficili della storia dell’Aquila. Patrizia Tocci, docente e scrittrice, ha raccolto 54 testimonianze di quella notte per farne un libro “I gigli della memoria”. Un progetto editoriale, che porta la firma di Solfanelli, presentato in anteprima nell’arco della giornata del festival “Volta la carta”. Al centro del nucleo narrativo c’è il giglio, simbolo di una parte della città che non c’è più, simbolo delle 309 vittime del sisma, ma anche di una memoria collettiva di una città cerca di una nuova identità. «Le case dell’Aquila hanno ancora bellissimi gigli in ferro battuto» ricorda la scrittrice «fanno capolino dai muri delle nostre case diroccate; erano la parte terminale delle catene che tenevano inchiodati all’interno i muri maestri, perché la nostra è sempre stata una terra ballerina». Di fatto, come la stessa Tocci ha scritto più volte «la parte terminale della catena veniva arricchita con questi fiori in ferro battuto; ogni giglio è diverso dall’altro, più o meno sontuoso, più o meno stilizzato. Sono ancora lì a ricordarci che chi non ha memoria non ha futuro». All’unisono il commento dell’editore teatino Marco Solfanelli. «Esistono tante cronache dei terremoti passati», ha detto, «a partire da quello di Avezzano del 1915. Gli archivi sono pieni di cronache, diari della ricostruzione, ma poche sono le emozioni che escono fuori da quelle carte. Questo libro, invece», aggiunge, «rappresenta un tentativo per raccogliere i ricordi diretti e le emozioni di cittadini che hanno vissuto e continuano a provare sulla pelle la drammatica esperienza del sisma». Dalle storie che si intrecciano emergono i frammenti di quella notte. Una specie di mosaico di cui fa parte anche il tassello di Francesca Luzi, dell’associazione «L’Aquila Volta la carta». È lei stessa a parlare di “puzzle” che si compone formando l’immagine di un giglio. Il libro si divide in due sezioni, partendo dai cinquantaquattro racconti. Testimonianze più o meno note organizzate in spunti tematici (numeri, liste, a piedi nudi, “qui è ancora notte”, l’esodo, voci e “intrusi”). Poi spazio ai Gigli della memoria della Tocci e, infine, alla post-fazione di Paolo Rumiz: «Le vestali della città del silenzio». Anche quest’anno, il programma della manifestazione Volta la carta propone una serie di appuntamenti editoriali di riflessione sul sisma, tra questi la presentazione del libro «Il gran tremore. Rappresentazione letteraria dei terremoti». Un lavoro di Raffaele Morabito, professore di Letteratura italiana all’Università dell’Aquila.

                                       

La città per “rinascere” ha bisogno di scelte innovative e coraggiose, le vite oggi vaganti hanno bisogno di ritrovarsi e tornare ad essere presto una comunità, anche con l’aiuto della scuola.




domenica 30 settembre 2012

Diaz esentata


Il 14 maggio 2010 la Camera dei Deputati della Repubblica Italiana ratifica l’accordo. Presenti 443, votanti 442, astenuti 1. Hanno votato sì 442: tutti, nessuno escluso. Poco dopo anche il Senato dà il via libera, anche qui all’unanimità. Il 12 giugno il Trattato di Velsen entra in vigore in Italia. La legge di ratifica n° 84 riguarda direttamente l’Arma dei Carabinieri, che verrà assorbita nella Polizia di Stato, e questa degradata a polizia locale di secondo livello. Mandato di arresto europeo, un corpo di polizia che sta per nascere. Che cosa sta succedendo, non solo in Italia, ma in tutta Europa. Iniziamo a dire che la maggior parte delle persone non è informata su questo trattato di Velsen che include le polizie di Europa, un corpo super specializzato e super segreto, con poteri pressoché illimitati. Un problema di disinformazione terrificante, il mandato di arresto europeo è una decisione quadro del 2002, ed è una legge italiana operante nello stato italiano dal 2005. Nonostante questo si continua a tenere l’opinione pubblica all’oscuro di tutto. L’opinione pubblica non è a conoscenza del tipo di problematiche e non è a conoscenza di tutte le tematiche che ruotano intorno all’unione europea.
Purtroppo quando si parla di unione europea c’è sempre e solo questa propaganda becera, vuota filoeuropeista fine a se stessa, che non permette al cittadino di formarsi un opinione, di informarsi, di sapere. Se il cittadino non ha un informazione non può partecipare, e senza partecipazione non c’è democrazia. Quando si parla di unione europea, il cittadino sta subendo in modo non democratico, delle situazione in cui il popolo non ha la possibilità di partecipare perché nessuno ci dice che cosa realmente sta succedendo.
L’episodio del mandato di arresto europeo in questo senso è clamoroso, se vogliamo quello della polizia europea è ancora più eclatante, questa polizia europea esiste, esiste già da due anni, fa delle cose, agisce, opera e nessuno lo sa. Questo tema della polizia europea è un tema il cui il pensiero unico e la cultura ufficiale sono spaventosamente condizionati, per cui il messaggio che passa che tutto ciò che viene dall’europa è bello, è buono e giusto, in quanto tale non si mette in discussione. Per carità in questi ultimi tempi le cose stanno cambiando, si sente parlare che le società di trading non sono più dei messia, quindi si comincia a mettere in discussione i ruoli della BCE. Tuttavia però, siamo ancora molto lontani dal capire che cosa l’unione europea sta facendo delle nostre vite e sulle nostre teste. Possiamo solo immaginare che quello che sta succedendo sia così pazzesco, così folle, ciò nonostante tutte le decisioni che si susseguono è inserito in un percorso, in una strategia di rendere i popoli sempre più sottomessi ad un PIL senza fine. Ormai il trattato di Velsen è stato ratificato nel giugno 2010 dal camera e dal senato, quindi ci troviamo con una legge ben consolidata: LEGGE 14 maggio 2010, n. 84 - Ratifica del trattato di Velsen (Eurogendfor)
Se leggiamo quali sono i compiti della nuova polizia europea previsti dell’art. 4 c’è davvero di preoccuparsi. Innanzitutto diciamo che la cosa che suscita molti dubbi è che praticamente sono stati unificati le polizie militari europee, quindi in Italia abbiamo il corpo dei Carabinieri, ma molto probabilmente se esiste il progetto di unificare tutti i corpi militari in questa Eurogendfor, è ovvio che l’arma dei Carabinieri è destinata a sparire. Era naturale che nell’ambiente del corpo ha gettato un certo allarme. Nel 2010, subito dopo la firma del trattato, c’è stata un interrogazione parlamentare al ministero della difesa, di cui nessuno ancora risponde a questa interrogazione. Recentemente, il 5 gennaio 2012, sul sito dei carabieri, è apparsa di nuovo questa notizia, dove si dice che l’unione europea impone la smilitarizzazione della quarta forza armata. E’ evidente che diventa sempre più concreta il disfacimento della benemerita, quello che per anni è sempre stata un simbolo dell’Italia. Ritornando all’art.4 in cui si descrive i compiti di questa super polizia: guidare e super visionare le forze di polizia locali nello svolgimento delle loro ordinarie mansioni, ivi compresa le attività di indagine penale. Per polizie locali non si intende la polizia municipale, ma si intende la polizia di stato, addirittura questa forza controlla ciò che fa la polizia di stato. Potrebbe sembrare una cosa normale, secondo il trattato, però va detto che questo nuovo corpo non risponde a nessun potere della magistratura. Cominciamo un poco a capire come può essere delicata la questione. Non solo questa Eurogendfor non risponde a nessun parlamento nazionale, ne a quello europeo, continuando ad essere ancora una volta preoccupati.
L’aspetto più preoccupante di quello che potrebbe fare questo corpo di polizia è l’art. 29 che dice: gli appartenenti ad Eurogendfor non potranno subire procedimenti a loro carico a seguito di una sentenza emanata contro di loro. Vuol dire che nel caso venissero condannati l’arresto non potrà essere eseguito nei loro confronti, sia per lo stato ospitante che nel ricevente, praticamente INTOCCABILI. Addirittura l’art. 23 dice: le comunicazioni indirizzate all’Eurogendfor, non possono essere oggetto di intercettazioni. Cioé la magistratura non può indagare su di loro. Art. 21: inviolabilità dei locali e degli uffici. Vuol dire che nessun magistrato può disporre un eventuale perquisizione nelle loro caserme.
Arrivando all’art. 28 si legge che i paesi firmatari sono in un certo senso obbligati a rinunciare a chiedere un indennizzo per danni procurati alle proprietà nel corso delle operazioni della Eurogendfor.
Questo nuovo corpo di polizia risponde soltanto al CIMIN (un club dei ministri degli esteri europei, attualmente sei stati: Italia, Francia, Romania, Olanda, Spagna e Portogallo).
Per altro nei loro compiti, questi super poliziotti, hanno un ventaglio di “responsabilità” che vanno dalla gestione del traffico negli incroci ai servizi di intellingence, quindi figuriamoci su che ampia gamma possono agire. La domanda è, con quali fondi questo nuovo servizio viene sostenuto? Al momento chi paga tutto è l’Italia, come si dice a Roma “te pareva”. Per finire la sede di questi intoccabili e a Vicenza, dove per altro vi è la più grossa sede NATO d’Europa (semplice coincidenza). Il trattato molto semplicemente dice che si occupa delle spese lo stato ospitante, il quartier generale e a Vicenza, quindi l’Italia per il momento provvede a tutte le spese. Dimentichiamoci dei numeri identificativi sui caschi degli agenti antisommossa, visto che avremo per le strade una forza militare composta da persone che non possono essere processate, godendo della complicità delle istituzioni.
UNA DIAZ ESENTATA DA OGNI RESPONSABILITA’.           

sabato 8 settembre 2012

Corruzione e svendita dell'Italia (il salasso)


L’idea della costruzione dell’Europa per Alcide De Gasperi nel dibattito a Strasburgo sullo statuto della comunità europea, fece inserire un emendamento sull’art. 38, in cui ci si impegnava entro sei mesi a realizzare l’assemblea costituente per gli Stati Uniti d’Europa. Una visione di una grandezza impareggiabile. Non possono sfuggire alla storia alcuni dati, l’Italia fino alla fine degli anni ’50 e i primi anni ’60, cresceva ad un ritmo cinese, del 7/8% del PIL l’anno. L’Italia aveva il PIL più forte di tutta l’Europa, nel 1960 la Lira ebbe l’oscar della moneta, per le ragioni prima esposte. Si pensa ad alcuni grandi interventi, l’autostrada del Sole (Milano-Napoli) è stata costruita in 4 anni, l’autostrada Adriatica in 5 anni, imprese che hanno stupito il mondo intero. Quindi De Gasperi pensava all’Italia, ogni suo pensiero era rivolto all’Italia. Le sue scelte politiche incidevano nella realtà del paese, avevano una dimensione nazionale molto forte, avevano un immediato riflesso, oggi le vera crisi della “democrazia” sta nel fatto che le politiche nazionali contano pochissimo, i governi nazionali non riescono ad essere efficaci, sono impotenti.
Sono impotenti perché di fronte alle dinamiche globali del mercato, le decisioni sono sempre imposte dall’esterno, sono necessitate, non riescono ad avere una loro autonomia, i tassi, i salari, con una buona aggiunta anche dell’inerzia della vera politica sociale.  
Per queste ragioni, sposta radicalmente la dimensione democratica e sociale del nostro paese. Si è perso una visione lunga della politica, specialmente nel nostro paese. Per contro si è messo in moto un disastroso processo di autodistruzione dello stato italiano e di tutte le sue risorse conquistate a fatica dai nostri padri.

Svendita al peggior offerente di uno stato dismesso.
Dopo la seconda guerra mondiale e la nascita della Repubblica Italiana, i maggiori partiti italiani dell’epoca, la DC e la sinistra facente capo al PCI, si trovarono a decidere insieme, quale struttura economica da dare al nascente Stato Italiano.
Vennero rifiutati i sistemi dominanti dell’epoca, cioè il liberismo statunitense e il collettivismo sovietico. La nuova forma economica che prese vita fu quella dello stato imprenditore. Con questo modello il potere economico statale si trovava a competere con le leggi del mercato, difatti quando i nostri costituenti vararono la Costituzione, inserirono nel terzo comma dell’articolo 41 il principio secondo cui lo Stato doveva indirizzare e coordinare sia l’economia pubblica sia quella privata. L o stato entrò in concorrenza con i privati, con lo scopo di incoraggiare, anche con l’ausilio privato, l’economia del paese. Questa soluzione portò un sistema così detto della “terza via”, che aiutò l’Italia a crescere economicamente dal dopoguerra in avanti.
Alla base dello stato imprenditore vi era l’IRI, nato nel 1933 come ente di salvataggio, che dopo il 1948 divenne il vero e proprio regolatore dei rapporti statali nel mondo industriale ed economico. Un altro ente importante per comprendere al meglio la presenza dello stato nell’economia era l’ENI, impegnato nel settore degli idrocarburi. Esso gestiva le partecipazioni statali nel compartimento dell’industria petrolifera e nei compartimenti della chimica. Negli anni ’80, l’Italia incontra, purtroppo, due personaggi chiave della svendita dei beni dello stato italiano: Romano Prodi, Carlo de Benedetti. Il primo venne nominato nel 1982, presidente dell’IRI, il secondo era proprietario del gruppo Repubblica/Espresso. Prodi, nei 7 anni che sarà alla guida dell’IRI, darà prova di grande ambiguità e scaltrezza. Infatti, in qualità di presidente concederà alle società di consulenze finanziarie “Nomisma”, della quale era dirigente, incarichi miliardari (alla faccia del conflitto d’interesse). Il primo grande colpo di Prodi alla presidenza dell’IRI, fu la vendita dell’ALFA ROMEO alla FIAT, dalla quale la sua Nomisma prese grandi somme in tangenti, per soli 1000 miliardi di £ a rate, mentre la FORD ne offriva 2000 in contanti, il fiuto degli affari per Prodi è veramente innato.
Nel 1986, Carlo de Benedetti sale in cattedra. Un anno prima il governo decise di privatizzare la SME. Il consiglio di amministrazione dell’IRI fu incaricato dell’operazione, anche se la decisione finale spettava al governo. Romano Prodi, come presidente dell’IRI, si mise subito all’opera. Con accordi privati con la Buitoni (presieduta da De Benedetti), svende il 64% della SME a soli 393 miliardi di £, quando il valore complessivo di mercato era di circa 3.100 miliardi. Naturalmente per chissà quale visione economica, Prodi non prende nemmeno in esame le offerte maggiori di mercato degli altri acquirenti. Alla fine a rompere le uova nel paniere, al duo De Benedetti/Prodi è Bettino Craxi, il quale non diede autorizzazione di vendita e ritenne di mantenere la SME in ambito pubblico. A completare l’opera dello smantellamento dello stato sociale italiano è la scissione tra la Banca d’Italia e lo stato.
1981, su iniziativa di Andreatta e Ciampi (appena asceso al soglio di Governatore della Banca d’Italia), la nostra Banca centrale venne esonerata dall’obbligo di acquistare i titoli del debito pubblico che fossero rimasti invenduti in asta. Quell’obbligo, in pratica, significava che lo Stato poteva indebitarsi al tasso desiderato, perché tutti i Buoni del tesoro che i privati non avessero acquistato finivano alla Banca centrale. Era il modo in cui lo Stato “comandava” il capitale monetario. Con il divorzio, invece, lo Stato venne costretto a indebitarsi ai tassi d’interesse correnti sul mercato, i quali giusto in quel periodo schizzavano verso l’alto a causa della svolta monetarista impressa
dall’azione della Federal Reserve, la banca centrale americana. Può essere interessante ricordare che un giovanotto di nome Mario Monti (il professorone) scrisse allora che il correlato inevitabile del “divorzio” doveva essere la dismissione progressiva delle aree d’intervento pubblico: se lo Stato non poteva più indebitarsi ai (bassi) tassi precedenti, c’era il rischio che la sua azione provocasse un aumento del debito pubblico. Ma la maggioranza pentapartito fu di diverso avviso, e così il nostro debito pubblico, che nel 1981 era pari al 58% del Pil (nonostante il profluvio di spese anticicliche sopportate nei sei anni precedenti), arrivò nel 1992 al 124% del Pil. Non perché ci fosse un eccesso di spese sociali rispetto alle entrate: il debito raddoppiò solo per effetto dell’aumento della spesa per interessi causato dal “divorzio”.
E’ il 2 giugno 1992, sul panfilo Britannia di sua maestà la regina Elisabetta, ci fu un incontro più o meno riservato tra top manager britannici ed italiani. Erano presenti i presidenti di ENI, ALENIA,   INA, AGIP, SNAM, Banco Ambrosiano, oltre all’ex ministro del tesoro Beniamino Andreatta e al direttore generale del tesoro Mario Draghi. La discussione fu incentrata sul tema delle privatizzazioni del comparto pubblico italiano, e la discussione si basò sulla critica al sistema italiano, reo di essere “lontano da un vero processo di privatizzazioni per ragioni culturali di sistema politico e di specificità delle aziende da cedere”, come ebbe a dire sullo yacth reale, il presidente dell’INA Lorenzo Pallesi.

Ad inasprire il dibattito ci pensò, il consigliere di Confindustria Mario Baldassarri, che incalzò “Per privatizzare servono quattro condizioni:
1.      una forte volontà politica
2.      un contesto sociale favorevole
3.      un quadro legislativo chiaro
4.      un ufficio centrale del governo che coordini tutto il processo di privatizzazioni. Da noi oggi non se ne verifica ancora una.

Queste 4 regole enunciate da Baldassarre, si tengono a mente: la numero 1; dopo la scomparsa dei partiti storici (Tangentopoli) DC/PSI, si avvicendarono al governo vari tecnici, tutti  fortemente propensi al nuovo corso economico, Carlo Azeglio Ciampi, Giuliano Amato, Lamberto Dini, Beniamino Andreatta e Mario Draghi.
la numero 2; quegli anni furono veramente di grande caos, dove l’indignazione contro la classe politica corrotta veniva spazzata via dalle inchieste giudiziarie, era altissima, dove il debito pubblico schizzava alle stelle, anche se non era un reale problema, il contesto era favorevole per lasciar spazio alle privatizzazioni. la numero 3; il quadro normativo cominciò ad essere chiaro fin dal 1993, con l’accordo Andreatta/Van Miert, che regolava la ricapitalizzazione del settore siderurgico a patto che l.o si privatizzasse e l’azzeramento delle imprese statali. Inoltre con il decreto Amato si trasformarono in S.p.A., l’IRI, l’ENI, l’ENEL ed INA, e con successivi decreti verrà regolamentata la pratica delle privatizzazioni. la numero 4; ed ecco anche l’ufficio, cioè il Comitato Permanente di Consulenza Globale e Garanzia per le Privatizzazioni presieduto da Mario Draghi.
Nel 1993 ritorna sulla scena nazionale Romano Prodi, divenendo nuovamente il presidente dell’IRI. Dopo essere stato consulente della Goldman Sachs, Prodi procedette alla svendita della Cirio-Bertolli- De Rica ((comparto SME) alla società Fisvi, la quale non aveva i requisiti necessari all’acquisto. La Fisvi acquista per due soldi il gruppo, e a sua volta cederà il controllo della Bertolli alla Unilever, multinazionale alimentare anglo/olandese. Chi era il consulente, l’Advisory Director dell’Unilever? L’impareggiabile Romano Prodi.   
Risale al 1993 la prima privatizzazione di una delle grandi banche pubbliche, Il Credito Italiano”. La Merryl Lynch, banca americana, incaricata come consulente dell’IRI, valuterà come prezzo di vendita del Credito Italiano 8/9 miliardi di £, ma alla fine verrà svenduta per 2.7 miliardi, prezzo imposto dalla Goldman Sachs, che ne acquisterà la proprietà.
Nel 1996 a vincere le elezioni è il centro/sinistra guidato da Romano Prodi, che cede un altro 16% delle quote ENI. Privatizzò anche la Dalmine e la Italimpianti, appartenenti al gruppo IRI. E’ nel 1997 che Prodi sfodera tutto il suo intelletto, ritornando a trattare con il suo vecchio amico, Carlo de Benedetti. Sugli affari fatti dai due, l’ex segretario del partito liberale ed ex ministro dell’industria, Renato Altissimo, disse “Infostrada, la rete telefonica delle ferrovie dello stato, fu ceduta a De Benedetti per 750 miliardi di £. Subito dopo De Benedetti vendette tutto per 14 mila miliardi di £, si, avete capito bene, 14 mila miliardi di £, ai tedeschi di Mannesman. Sempre in quell’anno Prodi mise sul mercato Telecom, con le azioni che furono vendute ad un prezzo irrisorio. Appena un anno dopo le azioni varranno sul mercato 5 volte tanto.
Dopo la caduta del governo Prodi nell’ottobre del 1998, a prendere il suo posto è Massimo D’Alema, uno dei tanti post-comunisti convertitosi al liberalismo, infatti nel novembre dello stesso anno privatizzerà la BNL, con la consulenza della JP Morgan (altra banca d’affari americana). Nel 1999 dopo il decreto Bersani che liberalizzava il settore dell’energia, venne privatizzata l’ENEL. Sempre in quell’anno si privatizzò anche la società autostrade alla famiglia Benetton. L’ultima fase delle liberalizzazioni riguarda quel poco che era rimasto dell’ENI. L’onnipresente Goldman Sachs acquisterà l’appetibile patrimonio per un valore di 3 mila miliardi di £. La divoratrice dei beni italiani, con la complicità dei nostri bravi signori citati, Goldman Sachs farà incetta anche di altri immobili come quella della Fondazione Cariplo, mentre la Morgan Stanley (anch’essa banca americana) si catapulterà all’acquisto di patrimoni dell’Unim, RAS e Toro. Secondo indagini seguiti dal Il Sole 24 ore  i gruppi esteri ormai posseggono più patrimoni ex pubblici di quanti ne posseggono gruppi italiani.
La fase delle privatizzazioni si può ritenere compiuta nel 2002 con la dismissione e la liquidazione dell’IRI. Il filo conduttore che hanno disteso è giunto al termine e con la regia delle banche inglesi, americane, francesi, con attori del calibro di Prodi, Draghi e il grande professorone, Monti, a completare l’opera, hanno reso l’Italia una semplice provincia.
In meno di 10 anni, un intero sistema economico viene distrutto. Un sistema economico che ha reso l’Italia uno dei più grandi paesi a livello internazionale. L’Italia, una delle cinque potenze del mondo economicamente, tecnologicamente e industrialmente più avanzate, viene ridotta a poco più di uno spezzatino. Grazie allo scempio di queste svendite, l’Italia si è giocata il 40% del suo PIL, cioè della sua ricchezza. I maggiori artefici di questo processo predatorio dello stato italiano, sono gli stessi uomini che hanno consegnato il paese in mano all’Europa e nella morsa della moneta unica. Sono gli stessi che vengono pontificati come profeti della buona politica, grandi statisti. Spero un giorno, non sia troppo lontano, che tutti questi uomini vengano processati per alto tradimento del popolo italiano.
Interessante un articolo di Luigi Cavallaro che percorre un analisi suicida del nostro paese.  

di Luigi Cavallaro

ECCO COME HANNO DISTRUTTO LO STATO SOCIALE ITALIANO: Tutti che guardano allo spread, intanto questa crisi ha cambiato completamente i connotati ai fondamenti dello Stato di diritto…

Più esattamente, questa crisi sta cambiando i connotati a quella peculiare declinazione dello Stato di diritto che è lo Stato sociale, a cominciare dalla sua pretesa di governare i processi economici. Si tratta in effetti della maturazione di un trend che ormai data da lontano. Per capirci, quando i nostri costituenti vararono la Costituzione, inserirono nel terzo comma dell’articolo 41 il principio secondo cui lo Stato doveva indirizzare e coordinare sia l’economia pubblica sia quella privata. Lo Stato, ai loro occhi, non doveva essere solo il “regolatore” dell’iniziativa economica e nemmeno il produttore di beni e servizi da offrire in alternativa alle merci capitalisticamente prodotte: doveva porre sia l’iniziativa economica pubblica sia quella privata nell’ambito di un proprio disegno globale, che individuava priorità, strategie, mezzi. Un obiettivo del genere, sebbene fermamente voluto sia dai cattolici che dai comunisti, era particolarmente inviso ai liberali, che erano ben disposti a godere dei benefici della spesa pubblica, ma certo non volevano saperne di cedere allo Stato poteri di indirizzo e controllo sulla loro attività. Si optò allora per un compromesso che – grazie alla mediazione di Luigi Einaudi, capofila dei liberali tra i costituenti – prese la forma dell’art. 81 della Costituzione: ogni legge di spesa doveva indicare la corrispondente fonte di entrata. Era un modo per dire che nemmeno lo Stato poteva sottrarsi al principio del pareggio di bilancio, perché Einaudi sapeva bene che, se si fosse consentito allo Stato di indebitarsi (come invece predicavano i keynesiani ortodossi), l’economia pubblica, che già si trovava collocata su una posizione di primazia, avrebbe preso il sopravvento sull’economia privata.

Un compromesso per la proprietà e il capitale…

Sì, ma nel 1966 la Corte costituzionale lo fece saltare, perché in una sentenza stabilì che anche il debito costituiva una forma di entrata. A quel punto – ricordiamo che in quel periodo il 90% del sistema bancario e un’elevatissima percentuale di quello industriale erano di proprietà pubblica – c’erano tutte le premesse perché anche l’economia italiana potesse avviarsi lungo i temuti (da Confindustria, beninteso) sentieri della “bolscevizzazione”: nel corso degli anni ’70 Guido Carli lo denunciò a più riprese e trovò ascolto, oltre che nelle classi proprietarie, in una nuova leva di economisti e giuristi che presto ne divennero gli intellettuali organici: penso a Eugenio Scalfari, Nino Andreatta, Romano Prodi, Giuliano Amato. In effetti, quando finalmente si scriverà la storia degli anni ’70, bisognerà pur dire che quella che andò in scena dietro il paravento delle crisi petrolifere, del balzo dell’inflazione, delle stragi e del terrorismo fu una vera e propria guerra civile, innescata dai tentativi di “rivoluzione dall’alto” che furono portati avanti dai tanto vituperati governi di solidarietà nazionale e del compromesso storico voluti da Moro e Berlinguer. Ma lasciamo stare, perché quel che ci interessa qui è la reazione capitalistica. La quale, più ancora che nella marcia dei 40.000, si manifestò nel cosiddetto “divorzio” tra il Tesoro e la Banca d’Italia. Su iniziativa di Andreatta e Ciampi (appena asceso al soglio di Governatore della Banca d’Italia), la nostra Banca centrale venne esonerata dall’obbligo di acquistare i titoli del debito pubblico che fossero rimasti invenduti in asta. Quell’obbligo, in pratica, significava che lo Stato poteva indebitarsi al tasso desiderato, perché tutti i Buoni del tesoro che i privati non avessero acquistato finivano alla Banca centrale. Era il modo in cui lo Stato “comandava” il capitale monetario. Con il divorzio, invece, lo Stato venne costretto a indebitarsi ai tassi d’interesse correnti sul mercato, i quali giusto in quel periodo schizzavano verso l’alto a causa della svolta monetarista impressa da Paul Volcker all’azione della Federal Reserve, la banca centrale americana. Può essere interessante ricordare che un giovanotto di nome Mario Monti scrisse allora che il correlato inevitabile del “divorzio” doveva essere la dismissione progressiva delle aree d’intervento pubblico: se lo Stato non poteva più indebitarsi ai (bassi) tassi precedenti, c’era il rischio che la sua azione provocasse un aumento del debito pubblico. Ma la maggioranza pentapartito fu di diverso avviso, e così il nostro debito pubblico, che nel 1981 era pari al 58% del Pil (nonostante il profluvio di spese anticicliche sopportate nei sei anni precedenti), arrivò nel 1992 al 124% del Pil. E bada bene, non perché ci fosse un eccesso di spese sociali rispetto alle entrate: il debito raddoppiò solo per effetto dell’aumento della spesa per interessi causato dal “divorzio”.

E dal 1992 ad ora che è successo?

E’ successo che quel processo di dismissione delle aree d’intervento statale, che fino ad allora non si era potuto realizzare perché la nostra Costituzione era “interventista”, è stato finalmente intrapreso grazie alla nostra adesione ai Trattati europei. I quali, dal punto di vista delle prescrizioni economiche, sono praticamente antitetici rispetto alla nostra Costituzione: per dirla con una battuta, è come se da Keynes fossimo tornati ad Adam Smith e David Ricardo. Peggio, alle “armonie economiche” di Bastiat. Si è cominciato a privatizzare, si sono tagliate le piante organiche delle amministrazioni pubbliche, si sono riformate la sanità e le pensioni in modo da umiliare i malati e impoverire i pensionati. Sono tutte politiche dettate dalla volontà di spazzar via lo Stato dal processo economico, che però hanno generato una diminuzione della domanda, perché non esiste alcuna domanda interna o estera capace di soppiantare la minor domanda pubblica di beni e servizi. L’unica fiammata di (relativo) benessere la nostra economia lo ha conosciuto tra il 1995 e il 1996, quando si fecero finalmente sentire gli effetti della pesantissima svalutazione della lira attuata (a danno dei lavoratori, grazie alla disdetta della scala mobile) nel 1992. Ma da quando siamo entrati a far parte della banda ristretta di oscillazione che poi (dal 1999) porterà alla moneta unica, le nostre esportazioni sono crollate e con esse la domanda, il reddito e l’occupazione. Guarda i tassi di crescita del nostro Pil dal 1997 a oggi e scoprirai che la “decrescita” ce l’abbiamo in casa fin da prima che Latouche inondasse con la sua bibliografia gli scaffali delle librerie.

Quindi il “fiscal compact” non è una novità come sembra…

La modifica che è stata adesso apportata all’articolo 81 della Costituzione, che ha reso davvero stringente il vincolo del bilancio in pareggio, è assolutamente coerente con l’ingresso del nostro paese nell’Unione europea. L’attività dello Stato, ci dice l’Europa, è possibile solo in quanto non interferisce con l’iniziativa privata. Non c’è più alcuna politica economica possibile: non una politica fiscale (perché si devono solo ridurre le spese), non una politica monetaria (perché ci pensa la Banca centrale europea), non una politica industriale (perché ci pensa Marchionne). Si devono solo abbassare i salari, perché non sono compatibili con un sistema produttivo arretrato come il nostro, che campa ancora di agroalimentare, abbigliamento, arredo casa e un po’ di automazione meccanica. E dunque via alla balcanizzazione dei contratti nazionali in una miriade di contratti aziendali: a questo serve la modifica dell’articolo 18, sebbene molta parte del sindacato non se ne dia per inteso.

Ma non c’erano alternative possibili?

Quello che è più triste è dover constatare che anche quanti avrebbero dovuto denunciare e contrastare per tempo questa follia di ritornare allo Stato ottocentesco, allo Stato veilleur de nuit, hanno avuto un ruolo che possiamo definire di “agevolazione colposa”. Mi riferisco all’antistatalismo viscerale che ha ispirato ed ispira molta parte della cosiddetta “sinistra d’alternativa”, che nei vent’anni trascorsi anni ha coltivato e diffuso nelle generazioni più giovani una quantità impressionante di mitologie protese a ricercare improbabili “terze vie” tra privato e pubblico, tra capitale e Stato: prima era il “terzo settore”, adesso sono i “beni comuni” e in mezzo ci sono sempre le utopie regressive dell’“ecologismo radicale”. Sono i cascami dell’anarchismo, dell’autogestionarismo e dell’assemblearismo post-sessantottino e post-settantasettino, che – va da sé – hanno assai più mercato editoriale e visibilità massmediatica rispetto alle più classiche posizioni marxiane o keynesiane: in fondo, non fanno altro che ripetere che la via “pubblica” è sbagliata e comunque non è percorribile, dunque al capitale fanno molto comodo. Quando vedo le marce contro la privatizzazione dell’acqua (e va da sé, per l’“acqua bene comune”), sorrido e mi vien da pensare a una battuta di Flaiano, che più o meno diceva che quando in Italia si organizza un convegno sull’importanza del bovino vuol dire che i buoi sono scappati dalla stalla. “No alla privatizzazione dell’acqua”: bene. Ma dove eravate, vien fatto di dire, quando si privatizzavano le banche e le industrie? Ci siamo dimenticati che il grosso delle privatizzazioni si è fatto a partire dal 1996, quando Presidente del Consiglio era Romano Prodi e Rifondazione Comunista sosteneva il governo? O ci siamo dimenticati che il dibattito timidamente avviato da un centinaio di economisti e intellettuali, che nel 2006 avevano sostenuto la possibilità di stabilizzare il debito in rapporto al Pil, fu stroncato da Fausto Bertinotti in persona, che mise il veto alla stessa possibilità che Rifondazione potesse esprimersi in merito per non ostacolare l’ennesima manovra “lacrime e sangue” voluta dal compianto Tommaso Padoa-Schioppa? Oggi siamo alla conclusione di un processo avviatosi trent’anni fa: il “fiscal compact” approvato in sede europea di fatto rimuove qualunque idea di direzione pubblica dei processi economici per i prossimi cinquant’anni. Il fatto che ci sia una tremenda crisi economica in corso può forse offrire una qualche speranza che tutto il marchingegno salti. Ma se questo meccanismo salta, salta da destra: la sinistra, come scrisse ormai quasi dieci anni fa Luigi Pintor nel suo ultimo editoriale, è morta da un pezzo.A proposito di crisi, come giudichi il protagonismo della Bce?


Il fatto che la banca centrale prometta di diventare prestatore di ultima istanza non risolve le contraddizioni del sistema capitalistico: su questo punto, Marx obiettò a Bagehot con considerazioni che mi paiono ancora decisive. Quel che si può dire con certezza è che, se l’Italia resterà nell’euro così com’è strutturato adesso, andremo incontro a un impoverimento progressivo e crescente: basti dire che per i prossimi vent’anni dovremo fare tagli di spesa per 45 miliardi all’anno…

Ma la giustificazione è che se il debito non diminuisce lo spread aumenta…

Questa è una delle più colossali mistificazioni spacciate per verità dalla borghesia dominante e dagli intellettuali suoi lacchè. Se l’andamento dello spread dipendesse dall’ammontare del debito pubblico, il divario tra i nostri titoli e quelli tedeschi dovrebbe essere superiore a quello che c’è fra quelli spagnoli e quelli tedeschi: la Spagna ha infatti un debito pubblico di molto inferiore al nostro. Invece non è così, e la ragione è che lo spread risente assai più dall’andamento della bilancia commerciale. In pratica, è come se i mercati scommettessero che i Paesi che si trovano con una bilancia commerciale in rosso saranno presto o tardi costretti o a svendere tutte le loro industrie ai tedeschi (o ad altri possibili compratori esteri) o a uscire dalla moneta unica e a ripudiare il debito in euro. Grecia, Portogallo, Spagna e Italia sono i Paesi maggiormente “indiziati” perché sono i Paesi con la struttura produttiva più debole. Sta qui – detto per inciso – la vera finalità delle manovre finanziarie cui ci sottopongono da vent’anni e da ultimo della stessa spending review: l’obiettivo è quello di deflazionare i consumi interni per abbattere il fabbisogno di importazioni e riportare in pareggio la bilancia commerciale. Funzionerà come funzionavano i salassi praticati dai cerusici ai malati di un tempo: terapie efficaci, ma solo perché uccidevano il paziente. Anche in Confindustria cominciano a sospettarlo.